Il sottotitolo di questa composizione (“Invenzione a una voce per pianoforte e orchestra”), che potrebbe suonare ironicamente paradossale, va inteso in una duplice accezione.
Da un lato perché la scrittura pianista brillante ma pressoché monodica, grazie allo sfruttamento degli artifici basati sulle moltissime risorse del tocco, della varietà dei registri, della dinamica, delle note tenute, del pedale delle differenti velocità di esecuzione delle figure, tende ad acquisire una dimensione virtualmente polifonica, che si propaga all’orchestra, la quale si incarica di illuminare, mettere in valore e conferire vita autonoma ai principi germinanti in senso polifonico della monodia pianistica. Una voce, dunque, che diventa più voci pur rimanendo una.
Dall’altro, per il motivo opposto: perché si vuole ricondurre ad unità stilistica, in un unico organismo unitario, dotato cioè di “una voce propria” - presuntuosamente, la “voce “, quella originaria, del compositore - un numero di materiali e situazioni variamente eterogenee tra di loro (da cui il titolo di “
Fantasia”); tra queste una citazione di un mio precedente pezzo per pianoforte (lo
Studio di disabitudine) e una smaccatissima citazione dell’ultimo studio dell’op. 25 di Chopin (i vortici gonfiati dall’orchestra di una voce che può muoversi solo in onde di bicordi ascendenti e discenti), la quale, dopo la sorpresa della sua inaspettata apparizione, sembra integrarsi perfettamente con il resto della composizione, come il ricordo di un nubifragio subito e felicemente superato.
Una nota sul tipo di virtuosismo pianistico che questa composizione richiede: la punta di ironia del sottotitolo vuole essere un suggerimento anche in questo senso. Nulla di appariscente e dimostrativo nella grande abilità e capacità di controllo con le quali l’interprete deve servire la partitura, sia per la padronanza degli artifici di scrittura di cui si diceva sopra, sia per il fitto e intrecciato dialogo con gli strumenti dell’orchestra. In questo rovesciamento tra il grande sforzo richiesto e la volontà di non farlo apparire consiste l’ironia. Essa è spinta al punto di lanciare una sfida al pianista navigante nelle onde della citazione chopiniana, rendendogli l’oceano che dà il titolo, apocrifo, allo studio di Chopin ancora più tempestoso di quanto l’autore l’avesse concepito, e costringendolo ad ardite quanto invisibili manovre pur di non essere sbalzato fuori dalla barca.
Stefano Gervasoni, 26.4.05
The subtitle of this work ("one voice invention"), which might sound ironical and contradictory, should be understood in two ways.
For the first thing, because the brilliant but almost one-voice piano writing, thanks to the use of the great variety of different touch, the variety of regions, dynamics, of the sustained notes, of the pedals and of different speed of performance of the musical figures, tends to acquire a virtual polyphonic dimension, which is extended to the orchestra. The orchestra then illuminates these figures, gives them weight and gives an independent life to the germinal elements of polyphony in the piano voice. This voice thus becomes multiple although remaining one.
On the other hand there is quite the contrary meaning of the title, since I want to create unity out of a number of heterogeneous situations, lead them to a stylistic unity in a unitary organism with its own proper voice – or, to be presumptuous, the “voice”, the original one, of the composer – here is where the title
Fantasia comes from. Among these heterogeneous materials there is a quote from an older piece of mine for piano (
Studio di disabitudine) and a shameless quote of the last Etude from op. 25 by Chopin (the vortex, swollen by the orchestra of a voice that can only move in waves of ascending and descending two-note chords), which, after the surprise of its unexpected apparition, seems to integrate perfectly with the rest of the work, as the memory of a rainstorm you go through and happily leave behind.
Just one note on the type of piano virtuosity this work requires: the pinch of humour in the subtitle should also be a hint in this respect. There should be no superficiality or show in the great ability and control the performer needs to tackle the score, both to render the stylistic elements mentioned above, or the dense and mingled dialogue with the orchestra. In this contradiction between the great effort required and the desire not to make it apparent resides the ironic element. It goes so far as to challenge the travelling pianist on the waves of the quote from Chopin, making the ocean that gives the new title to Chopin’s etude even more agitated than the author himself had planned, and forcing him to accomplish difficult although invisible manoeuvers so as not to be thrown off the boat.
Stefano Gervasoni, 26.4.05